Da oltre vent’anni, le principali scelte economiche e politiche italiane vengono prese sotto l’occhio vigile — e spesso il veto implicito — di commissari europei e organismi sovranazionali.
Molti cittadini non se ne accorgono, ma dietro ogni legge di bilancio, riforma o piano industriale si nasconde un lungo processo di approvazione, monitoraggio e giudizio da parte di soggetti che nessuno ha eletto.
L’Italia è diventata così un Paese che obbedisce più che decidere, un Paese dove le politiche nazionali si muovono entro binari scritti altrove.
L’Europa delle regole e non dei popoli
Quando nel 1957 si firmò il Trattato di Roma, l’idea europea era chiara: cooperare fra nazioni libere e sovrane, per garantire pace e sviluppo.
Negli anni, quella visione si è trasformata in una macchina tecnocratica capace di imporre vincoli di bilancio, riforme strutturali e parametri numerici che spesso soffocano le economie più fragili.
Il linguaggio è rassicurante — “armonizzazione”, “stabilità”, “sostenibilità fiscale” — ma dietro le parole si nasconde una verità più scomoda:
molte decisioni che incidono sulla vita dei cittadini non vengono più prese a Roma, ma a Bruxelles, Lussemburgo o Francoforte.
Le “raccomandazioni” della Commissione Europea, pur non essendo formalmente vincolanti, diventano condizioni necessarie per accedere a fondi, sostegni o semplicemente per evitare sanzioni.
In pratica, il nostro governo si trova spesso a recepire direttive esterne, trasformando le indicazioni di pochi funzionari in leggi nazionali.
I limiti imposti dai parametri di bilancio
Ogni anno, l’Italia deve sottoporre il proprio Documento di Economia e Finanza all’esame dell’Unione Europea.
I commissari controllano se il deficit rispetta il tetto del 3%, se il debito pubblico scende secondo il ritmo previsto, se la spesa sociale cresce “in modo compatibile”.
Questi parametri, nati per garantire stabilità, hanno finito per ingabbiare la politica economica.
In nome del “rispetto delle regole”, sono stati tagliati investimenti, ridotti i servizi e rinviate riforme cruciali.
Il risultato? Una crescita anemica, una disoccupazione cronica e un Paese costretto a gestire i conti, non a progettare il futuro.
DSP sostiene che la sovranità economica non può essere delegata a entità che non rispondono al voto dei cittadini.
Il bilancio dello Stato deve tornare a essere strumento politico, non esercizio contabile imposto dall’esterno.
Quando la democrazia si svuota
La presenza costante di commissari e organismi di controllo genera una forma sottile di commissariamento permanente.
Il Parlamento discute, ma entro i limiti già tracciati da altri.
I governi cambiano, ma le linee economiche restano identiche, perché “ce lo chiede l’Europa” è diventato un mantra che spegne ogni confronto.
È in questo contesto che la sovranità popolare perde significato: se le decisioni fondamentali vengono prese fuori dai confini, allora il voto nazionale rischia di diventare una formalità senza potere reale.
E quando la politica nazionale si riduce a semplice esecutrice di decisioni altrui, il cittadino smette di sentirsi rappresentato.
I commissari senza volto: potere tecnico, responsabilità zero
Chi sono, in concreto, questi “commissari stranieri”?
Sono tecnici, economisti, giuristi che agiscono in nome della “neutralità”, ma in realtà esercitano un potere enorme senza alcuna responsabilità diretta verso i cittadini.
Possono condizionare la politica fiscale, approvare o bloccare investimenti pubblici, influenzare le scelte industriali.
E se sbagliano, non rispondono davanti a nessuno.
Il potere dei tecnocrati nasce dal linguaggio dell’urgenza: bisogna agire subito, rispettare i mercati, evitare crisi di fiducia.
Ma in nome di questa urgenza, la democrazia viene sospesa, e le scelte collettive diventano semplici “aggiustamenti tecnici”.
Ripartire dal primato della Costituzione italiana
Per Democrazia Sovrana Popolare, la via d’uscita è chiara e concreta: rimettere la Costituzione italiana al vertice di ogni decisione.
Questo non significa isolarsi o rinunciare alla cooperazione internazionale, ma riaffermare che nessun trattato o regolamento esterno può prevalere sulla volontà del popolo sovrano.
Il Parlamento deve tornare ad avere pieno controllo su moneta, bilancio e politiche industriali.
Solo così l’Italia può decidere se, quando e come applicare regole europee che oggi vengono recepite in modo automatico, spesso a discapito del tessuto produttivo e sociale.
Cooperazione sì, subordinazione no
La critica di DSP non è contro l’Europa dei popoli, ma contro l’Europa dei poteri.
Un’Italia sovrana non è un’Italia chiusa, ma un’Italia libera di scegliere le proprie alleanze e i propri modelli economici.
Uscire dalla logica dei commissari non significa abbandonare il continente, bensì negoziare da pari, costruire un sistema di cooperazione basato su interessi reciproci e non su imposizioni unilaterali.
Solo attraverso questa libertà di scelta è possibile tornare a una politica estera e industriale indipendente, capace di difendere il lavoro, la produzione e l’ambiente senza subire diktat esterni.
La sovranità come atto di fiducia nel popolo
Riprendersi la sovranità non è un gesto di chiusura, ma di fiducia: fiducia nella capacità degli italiani di governarsi da soli, di scegliere il proprio destino senza bisogno di tutor esterni.
È un richiamo alla responsabilità collettiva: decidere in casa propria significa anche rispondere delle conseguenze, ma con la consapevolezza di poter correggere la rotta in autonomia.
Solo una nazione che crede nel proprio popolo può costruire un futuro stabile, giusto e prospero.
Conclusione
Oggi, più che mai, è necessario riaprire il dibattito su chi decide davvero per l’Italia.
Ogni passo verso la sovranità non è un salto nel buio, ma un ritorno alla normalità democratica: quella in cui le decisioni vengono prese dal popolo e per il popolo.
Solo restituendo alla Costituzione il suo primato e alla politica il suo coraggio, l’Italia potrà tornare a essere padrona del proprio destino — una nazione libera, consapevole e sovrana.