Il disastro della sanità privatizzata il SSN svuotato e la Costituzione tradita

Il disastro della sanità privatizzata: il SSN svuotato e la Costituzione tradita

Un Paese che cura solo chi può pagare non è più una Repubblica sociale

C’è una frase che riassume tutto: quando la sanità diventa un mercato, la salute smette di essere un diritto e torna a essere un privilegio. In Italia questa trasformazione non è improvvisa, non è frutto del caso e nemmeno di un singolo governo. È il risultato di un processo lungo, fatto di tagli progressivi, di riforme ispirate alla logica aziendale e di un’idea pericolosa: che il pubblico debba fare un passo indietro perché “il privato è più efficiente”.

Il problema è che la sanità non è una catena di montaggio. Non produce scarpe o telefonini: produce vita, possibilità di guarire, dignità nel dolore. E non può funzionare con le stesse regole del profitto senza generare ingiustizia. Quando la bussola diventa la sostenibilità finanziaria e non il bisogno di cura, si apre una crepa sociale enorme: chi ha soldi accelera, chi non li ha si ferma.

Ecco perché parlare di “disastro della sanità privatizzata” non è propaganda. È la fotografia di una realtà concreta fatta di attese infinite, ospedali chiusi, personale allo stremo e famiglie costrette a pagare di tasca propria quello che avevano già finanziato con le tasse.

Dal Servizio Sanitario Nazionale universalistico alla logica del mercato

Il Servizio Sanitario Nazionale nasce nel 1978 su una scelta di civiltà: garantire la tutela della salute a tutti, non importa dove nasci, quanto guadagni o che lavoro fai. È l’applicazione diretta dell’articolo 32 della Costituzione: la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività.

Quel modello universalistico ha funzionato. Ha aumentato l’aspettativa di vita, ha reso accessibili cure che altrove erano riservate a pochi, ha dato una rete di sicurezza soprattutto ai lavoratori, agli anziani e ai più fragili. Ma dagli anni Novanta in poi è iniziata una metamorfosi: le strutture sanitarie sono state trattate come aziende, valutate per bilanci e “produttività”, spinte a razionalizzare come se fossero imprese.

Questa aziendalizzazione ha portato con sé una conseguenza quasi inevitabile: se ti giudico come azienda, ti chiedo di ridurre costi e aumentare “rendimenti”. Ma un ospedale che riduce costi spesso riduce personale, posti letto, reparti territoriali, cioè riduce salute reale.

Nel frattempo è cresciuto il ruolo del privato accreditato, cioè di soggetti privati che operano con soldi pubblici. In teoria dovevano integrare il servizio pubblico; in pratica, in molte aree lo stanno sostituendo.

I tagli strutturali come motore della privatizzazione

La privatizzazione non avviene solo quando un ospedale passa formalmente a un soggetto privato. Succede anche – ed è la forma più comune – quando il pubblico viene lasciato senza risorse fino a non reggere più. È una privatizzazione per sfinimento: si taglia, si riduce, si blocca il turnover, e poi si dice che “non funziona”, aprendo le porte al mercato come soluzione inevitabile.

Basta guardare ai numeri complessivi. La spesa sanitaria pubblica italiana nel 2023 è stata circa il 6,2% del PIL, sotto la media europea e OCSE. Paesi come la Germania investono molto di più (oltre il 10% del PIL).
Questo divario di investimento non è neutro: significa meno personale, meno apparecchiature, meno prevenzione, meno territorio. Significa liste d’attesa più lunghe e cittadini costretti a cercare altrove la risposta.

Quando lo Stato arretra, il bisogno non sparisce: si sposta sul privato e diventa spesa. È un trasferimento silenzioso di diritti in mercato.

La spesa privata record: famiglie che pagano due volte

L’effetto più visibile di questa scelta è l’aumento della spesa sanitaria privata delle famiglie, quella che in gergo viene chiamata “out-of-pocket”: visite specialistiche, diagnostica, farmaci, riabilitazione pagati direttamente.

Nel 2023 questa spesa ha superato 40 miliardi di euro.
Quaranta miliardi pagati dalle famiglie non perché vogliono il lusso, ma perché spesso non hanno alternative. E questo racconta due cose:

  1. il pubblico è sottofinanziato;
  2. il privato cresce sulle sue macerie.

Le famiglie pagano due volte: prima con il gettito fiscale che dovrebbe sostenere il SSN; poi mettendo mano al portafoglio per saltare una fila che non possono aspettare.

Il meccanismo perverso delle liste d’attesa: coda pubblica, corsia privata

Il simbolo di questo disastro sono le liste d’attesa. Non perché le attese siano “un problema tecnico”, ma perché funzionano come un imbuto politico.

Se per una risonanza o una visita cardiologica ti danno appuntamento tra sei mesi, due cose accadono:

  • chi può pagare la fa in privato alla settimana successiva;
  • chi non può aspetta, e nel frattempo peggiora.

Nel 2024 circa 4 milioni di italiani hanno rinunciato a cure o visite proprio a causa delle liste d’attesa, in forte aumento rispetto all’anno precedente.
Altre rilevazioni parlano di quasi un italiano su dieci che rinuncia o rimanda esami per attese troppo lunghe o costi eccessivi. 

Questa è la vera spaccatura sociale del nostro tempo: la rinuncia alle cure come nuova forma di povertà. Non è una scelta individuale, è un fallimento pubblico. È la prova che il diritto si è trasformato in variabile economica.

Regionalizzazione: 21 sanità diverse e diritti a lotteria

Un altro pilastro della privatizzazione è la frammentazione regionale. La sanità è stata affidata alle Regioni in modo massiccio, con criteri e capacità di spesa molto differenti. Il risultato è che in Italia non esiste più un solo SSN, ma tanti sistemi quanti sono i territori, con prestazioni e tempi che cambiano radicalmente da Nord a Sud, dalle città alle aree interne.

Quando il diritto alla cura dipende dal CAP, non siamo più davanti a un principio costituzionale uniforme. Siamo davanti a una lotteria territoriale.

La conseguenza è la mobilità sanitaria: cittadini costretti a curarsi fuori regione perché nel loro territorio non trovano servizi adeguati o tempi accettabili. Nel 2023 si sono registrati circa 670 mila ricoveri fuori regione, con un flusso economico di quasi 2,9 miliardi di euro trasferiti dalle Regioni più deboli a quelle più forti. 

Questo fenomeno ha due volti:

  • per chi parte, è un costo enorme in termini di soldi, tempo, famiglia;
  • per chi resta, è un impoverimento progressivo: meno pazienti, meno risorse, ancora più declino.

La regionalizzazione ha quindi alimentato disuguaglianze e reso più facile la penetrazione del privato: dove il pubblico arraffa con difficoltà, il mercato entra senza ostacoli.

Il privato “sostitutivo”: seleziona il profitto e lascia il resto al pubblico

Il privato in sanità può avere un ruolo integrativo limitato e regolato. Ma un privato che diventa sostitutivo – cioè che prende in carico pezzi interi di assistenza perché il pubblico non regge – modifica la natura stessa del diritto.

In molti territori il privato ha preso quote crescenti in settori molto redditizi: diagnostica, visite specialistiche, chirurgia programmata, lungo-degenza. Non è un mistero: sono attività con margini alti e rischi bassi.

Ma cosa succede ai casi complessi, agli anziani pluripatologici, alle urgenze poco remunerative? Restano al pubblico.
Così si crea un doppio binario:

  • il privato intercetta prestazioni “facili e rentabili” e incassa;
  • il pubblico gestisce tutto ciò che costa, senza però avere le risorse sufficienti.

Non è concorrenza, è asimmetria strutturale. E alla fine il pubblico appare inefficiente non perché lo sia per natura, ma perché gli viene lasciato il carico più pesante col fiato corto.

Territorio smantellato: quando la prevenzione sparisce, l’ospedale esplode

La privatizzazione non riguarda solo gli ospedali: riguarda soprattutto la sanità territoriale. Consultori, ambulatori pubblici, medicina di prossimità, prevenzione: sono stati per anni l’obiettivo silenzioso dei tagli.

Quando il territorio non funziona, tutto si scarica sugli ospedali: pronto soccorso pieni, accessi impropri, diagnosi più tardive, cronicità gestite male. È come chiudere i rubinetti a monte e poi stupirsi dell’alluvione a valle.

In questo scenario il cittadino finisce per comprare da sé ciò che lo Stato non offre più: fisioterapia, assistenza domiciliare privata, esami ripetuti per conto suo, perfino servizi infermieristici.

Senza territorio pubblico, la sanità diventa inevitabilmente commerciale.

Il ritorno del censo: sanità a due velocità

Il punto più drammatico è politico e morale: la cura è tornata a dipendere dal reddito, come prima del SSN.

Oggi in Italia:

  • chi ha soldi fa visite entro giorni;
  • chi non li ha aspetta mesi;
  • chi non sopporta l’attesa rinuncia.

La frase “non posso curarmi” è diventata comune quanto “non posso pagare l’affitto”. E questo significa una cosa sola: lo Stato non sta proteggendo il cittadino nella dimensione più essenziale della vita.

Le disuguaglianze sanitarie non sono solo ingiuste: sono letali. Producono diagnosi più tardive nei ceti popolari, maggiore mortalità evitabile, qualità di vita più bassa. Un Paese che accetta questo è un Paese che ha smesso di credere davvero nell’uguaglianza.

Chi guadagna dalla crisi del pubblico

Ogni crisi ha qualcuno che ci guadagna. La crisi del SSN non fa eccezione.

Il privato cresce perché il pubblico arretra. Le assicurazioni sanitarie aumentano bacino e influenza. I grandi gruppi della sanità privata, spesso legati a logiche finanziarie, investono perché vedono una domanda crescente che non trova risposta nel pubblico.

E più la sanità pubblica appare lenta e circondata da problemi, più la narrazione pro-mercato si rafforza: “vedete? bisogna privatizzare ancora”. È un circolo vizioso perfetto.

Ma non è inevitabile. È costruito.

Che cosa serve davvero: rifondare il pubblico, non “correggere” il mercato

Se questo disastro è frutto di scelte politiche, allora anche la soluzione è politica. Non basta un decreto emergenziale sulle liste d’attesa o qualche finanziamento “una tantum”. Serve un cambio di rotta.

Ecco i punti essenziali di una rifondazione autentica del SSN:

Rifinanziamento strutturale e permanente

L’investimento pubblico deve tornare coerente con i bisogni reali. Stare sotto la media europea significa accettare meno salute e più disuguaglianza. 

Piano nazionale di assunzioni e valorizzazione del personale

Nessuna riforma regge senza medici, infermieri e tecnici sufficienti e tutelati. Le attese non si riducono con le app, ma con persone in corsia e in ambulatorio.

Fine dell’aziendalizzazione come criterio guida

Un ospedale non deve “fare utili”. Deve curare bene e presto. Il bilancio serve a sostenere la missione pubblica, non a sostituirla.

Standard nazionali vincolanti per superare la lotteria regionale

Stessi tempi massimi, stessa qualità, stessi livelli essenziali di assistenza ovunque. Se una Regione non li garantisce, lo Stato deve poter intervenire.

Regolazione forte del privato accreditato

Il privato può esistere solo entro un perimetro chiaro: nessuna rendita garantita, nessuna selezione opportunistica delle prestazioni, controlli veri su qualità e volumi.

Rilancio della medicina territoriale e della prevenzione

Case della salute, assistenza domiciliare, consultori, psicologia di base, screening: senza un territorio pubblico forte, l’ospedale collassa e il privato prospera.

    Conclusione: la salute è sovranità concreta

    La direzione presa fin qui è chiara: meno pubblico, più mercato, più disuguaglianza. I dati lo mostrano senza ambiguità: spesa pubblica sotto media europea, spesa privata familiare record, milioni di rinunce alle cure, migrazione sanitaria crescente. 

    Non si tratta di “migliorare l’efficienza” dentro lo stesso schema. Si tratta di scegliere che Paese vogliamo essere.

    • Se accettiamo che chi paga cura prima, stiamo dicendo che l’uguaglianza è una favola.
    • Se ricostruiamo una sanità pubblica universale, stiamo difendendo la Costituzione nel punto più vivo.

    La vera modernità non è privatizzare. È garantire a ogni cittadino, ovunque viva e qualunque sia il suo reddito, la stessa possibilità di diagnosi e cura.

    Perché una società che abbandona i malati non è solo ingiusta: è una società che ha perso se stessa.