Introduzione
Da oltre vent’anni i lavoratori italiani vedono i propri stipendi fermi, mentre il costo della vita cresce e il potere d’acquisto si riduce.
Molti giovani entrano nel mondo del lavoro con contratti fragili e retribuzioni che non permettono di vivere dignitosamente.
La domanda è inevitabile: perché l’Italia, pur essendo tra le prime economie europee, paga i salari più bassi del continente?
Per Democrazia Sovrana Popolare, questa condizione non è casuale né inevitabile. È il risultato di precise scelte economiche e politiche che hanno sacrificato il lavoro sull’altare della competitività di mercato.
Ribaltare questa logica è possibile solo restituendo centralità al lavoro, alla produzione reale e alla sovranità economica del Paese.
1. Il declino salariale come specchio di un modello sbagliato
1.1 L’illusione della flessibilità
Negli ultimi decenni il lavoro è stato presentato come una merce da rendere “più flessibile” per favorire la crescita economica.
Ma la flessibilità, nata come strumento temporaneo per assorbire la disoccupazione, si è trasformata in precarietà permanente.
I contratti brevi, gli stage non retribuiti e le collaborazioni a basso costo hanno eroso la stabilità e ridotto la forza contrattuale dei lavoratori.
Il risultato è un sistema in cui chi lavora vale meno di ieri, mentre la ricchezza si concentra sempre di più nelle mani di chi gestisce il capitale e la rendita.
1.2 La svalutazione del lavoro intellettuale e tecnico
Anche le professioni qualificate, un tempo garanzia di crescita economica e sociale, oggi non assicurano più un reddito adeguato.
In Italia il valore del merito, dello studio e della competenza si è indebolito.
Troppi giovani laureati accettano impieghi sottopagati, non per mancanza di capacità, ma per l’assenza di un sistema che riconosca e valorizzi il sapere.
Democrazia Sovrana Popolare ritiene che il lavoro qualificato debba essere tutelato e che la formazione non possa più essere considerata un lusso individuale, ma un investimento collettivo sul futuro del Paese.
2. Un Paese che lavora tanto ma guadagna poco
2.1 L’erosione del potere d’acquisto
Negli ultimi vent’anni i salari nominali sono rimasti pressoché fermi, mentre le spese quotidiane – casa, energia, alimentazione – sono cresciute in modo costante.
Di fatto, milioni di lavoratori guadagnano quanto vent’anni fa, ma vivono peggio.
Si tratta di una perdita invisibile ma profonda, che ha cambiato le abitudini, i consumi e le prospettive di intere famiglie.
Quando il lavoro non basta più per vivere, si incrina il patto sociale su cui si regge una democrazia: chi produce ricchezza non ne riceve una parte equa.
2.2 Il peso del ceto medio impoverito
Il ceto medio – artigiani, professionisti, dipendenti pubblici, piccoli imprenditori – è il cuore pulsante della nazione.
Eppure, oggi vive sotto pressione.
Tra tasse elevate, inflazione e stagnazione salariale, molti si ritrovano stretti tra il rischio di cadere nella povertà e l’impossibilità di crescere.
Per DSP, questa è una delle principali minacce alla stabilità sociale: un Paese senza ceto medio è un Paese senza equilibrio.
Difendere il reddito e la dignità del lavoro significa difendere la libertà della maggioranza dei cittadini.
3. Le radici profonde della crisi salariale
3.1 L’assenza di una strategia industriale nazionale
Per anni l’Italia ha rinunciato a una politica industriale coerente.
Le delocalizzazioni, la finanziarizzazione dell’economia e la chiusura di interi comparti produttivi hanno svuotato la nostra base occupazionale.
Quando si smette di produrre valore sul territorio, i salari inevitabilmente si comprimono.
Un’economia che si limita a gestire servizi, appalti e subforniture non può garantire retribuzioni alte e stabili.
DSP sostiene che il rilancio della manifattura e delle filiere nazionali sia la condizione essenziale per ricostruire un sistema di lavoro solido e ben retribuito.
3.2 L’indebolimento dei contratti collettivi
L’individualizzazione dei rapporti di lavoro ha minato la forza dei contratti collettivi e dei corpi intermedi.
Molti lavoratori si trovano oggi soli davanti al datore di lavoro, senza strumenti di difesa o di negoziazione.
Il risultato è un progressivo abbassamento del livello retributivo medio e la diffusione di contratti “pirata” che erodono diritti e tutele.
DSP promuove la contrattazione nazionale e territoriale come strumento di equità e solidarietà tra categorie, aree e generazioni.
3.3 L’impatto della fiscalità e del costo del lavoro
Il carico fiscale sul lavoro in Italia resta tra i più alti d’Europa.
Ciò significa che le imprese spendono molto per retribuire i dipendenti, ma ai lavoratori arriva poco.
In pratica, lo Stato trattiene ciò che dovrebbe restare al lavoratore e alla produzione.
Una riforma fiscale equa e intelligente dovrebbe alleggerire il costo del lavoro, non comprimere ulteriormente i redditi già bassi.
DSP propone un sistema progressivo che premi chi produce e chi assume, invece di gravare su chi lavora.
4. L’Europa e i vincoli esterni: la questione della sovranità
Negli anni, l’Italia ha accettato una serie di vincoli economici che hanno limitato la libertà di azione del governo in materia di salari, politica monetaria e investimenti pubblici.
L’obiettivo dichiarato era la stabilità finanziaria, ma il prezzo è stato la perdita di strumenti di politica economica.
Per Democrazia Sovrana Popolare, non si può affrontare il tema dei salari senza affrontare quello della sovranità nazionale.
Solo uno Stato libero di investire, programmare e orientare le risorse può garantire una distribuzione equa della ricchezza prodotta.
5. Alcune proposte per invertire la rotta
5.1 Salario minimo legale e contrattazione forte
DSP sostiene l’introduzione di un salario minimo nazionale che impedisca forme di sfruttamento e garantisca un reddito dignitoso per ogni categoria.
Parallelamente, occorre rafforzare la contrattazione collettiva: il salario minimo deve essere una base, non un tetto.
5.2 Incentivi alle imprese che investono in qualità e stabilità
Le imprese che offrono occupazione stabile e retribuzioni adeguate devono essere premiate con incentivi fiscali e accesso agevolato al credito pubblico.
Chi, invece, basa il proprio profitto su lavoro precario e sottopagato, non deve più beneficiare di sussidi o fondi pubblici.
5.3 Politiche pubbliche per la produttività reale
La produttività non si aumenta tagliando salari, ma investendo in ricerca, tecnologia, infrastrutture e formazione.
Solo così il valore aggiunto generato potrà tradursi in redditi più alti e in crescita reale.
DSP propone un piano nazionale di rilancio produttivo che valorizzi il made in Italy, le filiere strategiche e l’innovazione diffusa, legandole al territorio e alle comunità locali.
6. Un nuovo patto tra Stato, lavoro e impresa
Per invertire la rotta non bastano interventi economici: serve una visione politica condivisa.
Lo Stato deve tornare a essere regista dello sviluppo, non spettatore delle dinamiche di mercato.
L’impresa deve tornare a essere una comunità produttiva, non un semplice centro di profitto.
E il lavoratore deve tornare ad avere un ruolo di cittadinanza attiva, non subordinata.
DSP propone un nuovo patto sociale basato su tre principi:
- Lavoro stabile come diritto costituzionale.
- Reddito dignitoso come garanzia di libertà personale.
- Partecipazione dei lavoratori alle scelte economiche nazionali.
Conclusione
Il problema dei salari non è solo una questione economica, ma un tema di civiltà.
Un Paese che non remunera il lavoro in modo equo rinuncia al proprio futuro e mina le basi della propria coesione.
Per Democrazia Sovrana Popolare, il riscatto dell’Italia passa da qui: dal riconoscimento del valore del lavoro come misura della dignità umana e come fondamento della sovranità nazionale.Solo restituendo forza ai salari, stabilità ai lavoratori e centralità alla produzione reale, l’Italia potrà tornare a essere una nazione prospera, giusta e libera.