L’Italia, culla della cultura contadina e patria del Made in Italy agroalimentare, sta perdendo la propria anima agricola.
Dietro le campagne abbandonate, le stalle chiuse e i mercati svuotati non c’è solo l’evoluzione naturale dei tempi, ma un insieme di decisioni politiche ed economiche sbagliate, prese in gran parte fuori dai confini nazionali.
Oggi l’agricoltura italiana non muore di modernità, ma di subordinazione: alle logiche della finanza globale, alle regole di Bruxelles e a un mercato che premia il prezzo più basso, non la qualità del prodotto.
La grande contraddizione: un Paese agricolo che importa cibo
L’Italia è il secondo Paese europeo per biodiversità e qualità alimentare, ma importa oltre il 50% delle materie prime agricole che consuma.
Come è possibile che un Paese con un clima favorevole, una tradizione millenaria e marchi conosciuti in tutto il mondo non riesca più a sfamare se stesso?
La risposta è nel modello di politica agricola imposto dall’Unione Europea: un sistema che ha progressivamente sostituito la programmazione nazionale con regole e quote decise da altri.
Le cosiddette “Politiche Agricole Comuni” (PAC) hanno finito per premiare la rendita e penalizzare la produzione reale, favorendo le grandi aziende e scoraggiando i piccoli produttori.
A ciò si aggiunge la pressione dei mercati globali, che immettono sul mercato italiano prodotti a basso costo, spesso provenienti da Paesi con standard ambientali e sanitari inferiori.
Il risultato è un paradosso: gli agricoltori italiani chiudono, mentre gli scaffali dei supermercati si riempiono di prodotti stranieri venduti come “italiani”.
La trappola delle regole europee e la burocrazia che soffoca
Ogni anno gli agricoltori devono districarsi fra decine di regolamenti, certificazioni, vincoli ambientali e richieste burocratiche imposte da Bruxelles.
Chi lavora la terra deve compilare moduli, relazioni e autocertificazioni più numerose dei filari che coltiva.
La burocrazia agricola è diventata un vero e proprio costo nascosto.
I piccoli produttori, che rappresentano l’ossatura rurale italiana, spesso non dispongono di risorse o personale per gestire la parte amministrativa.
Molti rinunciano, vendono i terreni o lasciano incolti gli appezzamenti.
Nel frattempo, le grandi aziende agroindustriali, grazie a uffici dedicati e consulenti legali, riescono a incassare gran parte dei fondi europei.
Il principio di equità che avrebbe dovuto sostenere chi produce valore locale si è trasformato in un meccanismo di concentrazione della ricchezza agricola.
Prezzi sotto costo e filiere distorte
Il contadino italiano oggi produce spesso in perdita.
Il prezzo riconosciuto alla stalla o alla raccolta copre a malapena i costi di produzione, mentre il margine vero si concentra nei passaggi intermedi della filiera: trasformazione, distribuzione e grande distribuzione organizzata.
In altre parole, chi produce guadagna sempre meno, chi intermedia guadagna sempre di più.
A ciò si somma l’aumento dei costi energetici e dei fertilizzanti, la concorrenza di prodotti importati e l’impossibilità di pianificare a lungo termine a causa di regole mutevoli e instabili.
Molti giovani vorrebbero lavorare in agricoltura, ma si scontrano con assenza di credito, costi iniziali elevati e redditività incerta.
Il risultato è un settore che invecchia, si desertifica e perde capacità produttiva.
La sovranità alimentare come chiave per la rinascita
Democrazia Sovrana Popolare propone un modello alternativo: riconquistare la sovranità alimentare.
Questo significa mettere al centro non solo il valore economico del cibo, ma la sua funzione sociale, culturale e strategica.
Un Paese che non controlla la propria produzione alimentare è un Paese vulnerabile, dipendente da chi decide cosa può o non può mangiare.
La sovranità alimentare implica:
- Programmazione nazionale delle coltivazioni e delle produzioni in base ai bisogni interni.
- Prezzi minimi garantiti e contratti di filiera trasparenti che tutelino il produttore.
- Etichettatura d’origine completa, per informare i consumatori e valorizzare i prodotti italiani autentici.
- Tutela delle varietà locali e delle tradizioni agricole contro l’omologazione imposta dai mercati.
- Stop all’importazione incontrollata di prodotti che non rispettano gli stessi standard di sicurezza e qualità richiesti in Italia.
Ridare dignità al lavoro agricolo
Il contadino non è un residuo del passato: è il custode del territorio, dell’ambiente e della salute collettiva.
Senza di lui, frane, dissesto idrogeologico e abbandono rurale diventano la norma.
Eppure, negli ultimi decenni, il lavoro agricolo è stato svalutato, spesso ridotto a voce marginale del PIL.
Occorre riconoscere piena dignità e centralità a chi lavora la terra, restituendo valore economico e sociale a questa professione.
DSP sostiene politiche di credito agevolato per le aziende agricole sotto una certa soglia di fatturato, la creazione di cooperative territoriali e incentivi per il ricambio generazionale.
Un’agricoltura giovane, tecnologicamente aggiornata ma radicata nella tradizione, può essere la chiave per riconciliare innovazione e identità.
Il futuro: dal mercato globale alla comunità locale
Il futuro dell’agricoltura italiana non si trova nei modelli di produzione intensiva né nella dipendenza dai sussidi europei.
Si trova nella forza delle comunità locali, nella valorizzazione dei circuiti corti, nella vendita diretta, nell’agricoltura biologica e sostenibile.
Per DSP, autonomia alimentare e sovranità politica sono due facce della stessa medaglia.
Un Paese che non può decidere come produrre e cosa mangiare non è libero, e non potrà mai difendere fino in fondo i propri cittadini.
Un nuovo patto fra Stato, agricoltori e cittadini
Ricostruire il settore agricolo significa instaurare un patto di fiducia fra chi produce, chi governa e chi consuma.
Lo Stato deve tornare a fare politica agricola vera, pianificare, investire e difendere il prodotto nazionale dalle distorsioni del mercato globale.
Gli agricoltori devono essere parte del processo decisionale, non semplici esecutori di norme scritte altrove.
E i cittadini devono diventare consumatori consapevoli, capaci di scegliere il valore, non solo il prezzo.
L’agricoltura come pilastro della sovranità nazionale
Difendere la nostra agricoltura significa difendere il territorio, l’ambiente, la salute e la cultura alimentare italiana.
Non è un tema settoriale, ma un pilastro della sovranità nazionale.
Ogni campo che torna a produrre, ogni stalla che riapre, ogni filiera che si ricostruisce è un passo verso un’Italia più libera, più giusta e più indipendente.
Conclusione
L’agricoltura italiana non ha bisogno di elemosine, ma di libertà: libertà di produrre, di competere e di crescere senza essere soffocata da regole esterne e burocrazie sterili.
Serve una visione strategica che metta al centro la sovranità alimentare, la dignità del lavoro agricolo e il valore del territorio.Solo tornando padroni della nostra terra potremo tornare padroni del nostro futuro.
E solo un’Italia che nutre se stessa potrà davvero dirsi sovrana.