Quando la salute diventa un mercato, il malato diventa un cliente
C’è un confine che una società civile non dovrebbe mai superare: quello in cui la cura smette di essere una responsabilità collettiva e diventa un’occasione di profitto. Quando accade, il malato non è più una persona da assistere, ma un cliente da conquistare; non è più un cittadino con un diritto, ma un consumatore con un portafoglio.
In Italia questa trasformazione è avanzata lentamente, ma con una direzione chiara: arretramento del pubblico e crescita del privato. Un arretramento che non avviene solo con decisioni esplicite, ma soprattutto attraverso un logoramento progressivo del Servizio Sanitario Nazionale: tagli, carenze di personale, chiusure territoriali, liste d’attesa infinite.
Il risultato è visibile in ogni famiglia: per curarsi in tempi dignitosi si paga. E più si paga, più il sistema si abitua al fatto che la salute possa essere comprata.
Questo è il cuore del business sanitario: la trasformazione di un diritto in un mercato stabile e crescente.
Il privato non cresce perché “migliore”: cresce perché il pubblico è stato indebolito
La narrazione più comune dice: “il privato cresce perché è più efficiente”. Ma è una semplificazione interessata. In realtà il privato cresce perché il pubblico è stato reso insufficiente.
Il meccanismo è sempre uguale:
- il servizio pubblico non riesce a garantire tempi adeguati;
- l’offerta territoriale si restringe;
- le liste d’attesa diventano un muro;
- il cittadino, se può, paga;
- se non può, rinuncia.
In questo schema, il privato non è un motore virtuoso che compete con il pubblico: è un soggetto che si espande sulle sue crepe.
Ogni giorno una persona sceglie una visita privata non perché ama spendere di più, ma perché non può aspettare. Ogni volta che questo accade, il mercato sanitario guadagna una fetta di diritto che prima era pubblico.
La spesa delle famiglie: pagare due volte per lo stesso diritto
Il dato più concreto del business sulla pelle degli ammalati è la crescita della spesa sanitaria diretta delle famiglie. Visite specialistiche, diagnostica, riabilitazione, assistenza domiciliare: sempre più spesso non sono accessibili in tempi utili nel pubblico, o non sono disponibili affatto nei territori.
Questo produce un paradosso ingiusto:
- i cittadini finanziano il SSN con le tasse;
- poi pagano di tasca loro per ottenere ciò che il SSN non riesce a dare.
È una doppia imposizione mascherata da “libera scelta”. Non è libertà se l’alternativa è aspettare troppo o restare senza cura.
Dietro a quella spesa privata cresce un mercato enorme. E un mercato enorme non resta neutro: cerca di condizionare politiche, narrazioni, abitudini sociali.
Il privato accreditato: denaro pubblico, logica privata
Una parte decisiva del business sanitario italiano è il privato accreditato. Si tratta di strutture private che erogano prestazioni pagate dal sistema pubblico.
In teoria dovrebbero integrare il servizio pubblico. In pratica, in molte aree, lo stanno sostituendo. Ma con una differenza strutturale:
- il pubblico deve garantire tutto, sempre, anche ciò che costa e rende poco;
- il privato può scegliere dove concentrarsi, privilegiando ciò che è più redditizio.
Questo crea un gioco truccato:
- il privato incassa sulle prestazioni più remunerative;
- il pubblico resta con urgenze, cronicità complesse, casi socialmente pesanti;
- il pubblico appare inefficiente perché lavora con il carico più duro e con meno risorse.
Così il sistema finanzia il privato per fare “la parte facile”, mentre lascia al pubblico la parte più costosa senza abbastanza ossigeno.
È un modello che trasferisce ricchezza pubblica verso il profitto privato. E lo fa in modo stabile, non occasionale.
Liste d’attesa come carburante economico
Le liste d’attesa non sono solo un problema organizzativo: sono un fattore economico.
Se una risonanza pubblica è disponibile tra otto mesi, la risonanza privata tra tre giorni diventa la soluzione inevitabile.
Le liste lunghe:
- generano domanda privata;
- aumentano i prezzi di mercato delle prestazioni;
- rendono il privato un “canale normale” di cura;
- trasformano la sanità in una spesa strutturale familiare.
In altre parole: la lista d’attesa produce fatturato.
Questo è un punto politico centrale: una sanità pubblica indebolita non è solo un disastro sociale, è anche un’opportunità di mercato per chi vende cura.
E quando un problema sociale è anche opportunità di profitto, c’è un incentivo strutturale a non risolverlo fino in fondo.
Assicurazioni e fondi integrativi: il passo verso la sanità a pacchetti
Dove il pubblico arretra e il privato cresce, arrivano anche assicurazioni e fondi sanitari integrativi.
Il ragionamento è apparentemente semplice: “se il pubblico non riesce a garantire tutto, assicurati”.
Ma questa idea contiene una trasformazione diseguale:
- chi ha reddito e lavoro stabile si assicura;
- chi non ce l’ha resta nel pubblico impoverito;
- la salute diventa legata al tipo di contratto e al censo.
È la logica della sanità “a pacchetti”: cure rapide e complete per chi è coperto da polizze; attese e servizi ridotti per chi non lo è.
La storia internazionale mostra che questo modello crea inevitabilmente due sistemi separati. E una volta creati, tornare indietro è difficilissimo: perché si forma un’intera industria che vive di quella divisione.
RSA e lungo-degenza: il profitto sul bisogno più fragile
Un settore in cui il business sanitario ha trovato terreno fertilissimo è quello dell’assistenza agli anziani e alla non autosufficienza: RSA, residenze e strutture socio-sanitarie.
Qui si incrociano tre fattori:
- invecchiamento della popolazione;
- carenza di servizi pubblici domiciliari e territoriali;
- famiglie spesso sole e senza alternative.
Il risultato è che l’assistenza diventa un mercato di necessità. E quando la necessità incontra l’assenza di pubblico, il prezzo lo decide chi offre.
Le famiglie si ritrovano a sostenere costi altissimi per garantire dignità ai propri cari. E chi non può, spesso resta senza soluzioni adeguate.
Il profitto sul bisogno degli anziani è una delle forme più crude di business sulla pelle degli ammalati: perché si fonda su fragilità massima e su assenza di alternative.
Gettonisti e outsourcing: il paradosso che arricchisce i privati e svuota il pubblico
Un’altra faccia del business sanitario è il ricorso crescente a cooperative, appalti, esternalizzazioni e personale “a gettone”.
Accade così:
- il pubblico perde personale perché non assume stabilmente;
- per tappare i buchi paga salari molto più alti a strutture esterne;
- cresce un mercato del lavoro sanitario privatizzato e precario.
È un paradosso economico e morale:
- si risparmia sul pubblico in nome dell’austerità;
- poi si spende di più per comprare lavoro sanitario privatizzato.
Chi guadagna?
Le agenzie intermediarie e i circuiti privati che trasformano la carenza pubblica in business.
Chi perde?
Il SSN, che si svuota di stabilità, e i cittadini, che pagano il conto.
La selezione delle prestazioni: il privato prende il “facile”, il pubblico il “difficile”
Il profitto ha una regola semplice: cerca prestazioni remunerative e riduce quelle poco convenienti.
In sanità questo significa:
- alta redditività: diagnostica, visite specialistiche, chirurgia programmata, riabilitazione breve;
- bassa redditività: urgenze, polipatologie, pazienti fragili, prevenzione, salute mentale di lungo periodo.
Se il privato cresce come sostituto, il rischio è evidente: si espande dove guadagna e lascia scoperto ciò che non rende.
E il pubblico viene trasformato nel reparto di ultima istanza: quello che tiene in piedi tutto ciò che il mercato non vuole.
Questo è uno dei modi più rapidi per distruggere l’universalismo: il pubblico appare un servizio per poveri e casi disperati, mentre il privato diventa la strada “normale” per chi può.
Il prezzo democratico del business sanitario
La sanità privatizzata non produce solo diseguaglianze cliniche. Produce anche un’erosione democratica.
Perché quando un diritto è disponibile solo a pagamento:
- non è più un diritto pieno;
- diventa dipendente dal reddito;
- trasforma i cittadini in clienti.
E una comunità di clienti non è una comunità sovrana.
La sanità pubblica è una delle basi materiali della cittadinanza. Senza di essa, l’uguaglianza resta una parola.
La privatizzazione diffusa, invece, crea una società a caste sanitarie:
- chi vive in territori forti e ha reddito trova cure rapide;
- chi vive in territori fragili o ha reddito basso resta intrappolato nell’attesa.
È una frattura che si porta dietro tutto il resto: lavoro, istruzione, futuro.
“Ma il privato aiuta”: quando l’argomento diventa un ricatto
C’è un’obiezione che si sente spesso: “senza privato il sistema non reggerebbe”.
È vero che oggi il privato è diventato una valvola di sfogo. Ma il punto è perché lo è diventato e cosa comporta.
È come dire: “senza stampelle non cammini”.
Ma se ti sei rotto la gamba perché qualcuno te l’ha colpita, non puoi trasformare le stampelle in destino eterno.
Il privato “aiuta” perché il pubblico è stato lasciato senza forza.
Ma se il privato diventa la soluzione strutturale, allora il pubblico non tornerà mai più in piedi.
E a quel punto non è più aiuto: è sostituzione permanente.
Come si ferma il business sulla pelle degli ammalati
Se la malattia è politica, la cura deve esserlo. Non bastano correttivi marginali. Serve una scelta netta: ricostruire la sanità pubblica come infrastruttura centrale del Paese.
Ecco le leve decisive.
1) Rifinanziamento stabile del SSN
Le liste d’attesa, la fuga nel privato, i costi familiari crescenti nascono da una causa primaria: risorse pubbliche insufficienti.
Il finanziamento deve diventare stabile, pluriennale, coerente con i bisogni reali. Finché si resta sotto soglia, il mercato continuerà a crescere come conseguenza inevitabile.
2) Assunzioni pubbliche vere e fine della precarizzazione
La capacità di cura si misura in persone.
Assumere stabilmente significa:
- più prestazioni;
- meno liste;
- più territorio;
- meno ricorso a cooperative costose.
Senza personale pubblico adeguato, nessuna riforma regge.
3) Rilancio della sanità territoriale e domiciliare
Ridurre il business privato significa ridurre i vuoti pubblici.
Se il territorio pubblico torna forte – ambulatori, consultori, assistenza domiciliare, prevenzione, salute mentale di comunità – una parte enorme della domanda non scivola più sul mercato.
Il territorio non è un costo: è ciò che evita la privatizzazione indiretta.
4) Regole stringenti sul privato accreditato
Non può esistere un privato pagato dal pubblico senza controlli rigorosi su:
- volumi erogati;
- qualità;
- appropriatezza;
- distribuzione territoriale reale;
- divieto di selezione opportunistica.
Il privato accreditato deve essere subordinato ai bisogni collettivi, non libero di espandersi dove guadagna.
5) Separare davvero corsie pubbliche e scorciatoie a pagamento
Un diritto non può essere aggirato con un portafoglio più spesso.
Ridurre drasticamente le distorsioni che trasformano l’intramoenia nel canale rapido è indispensabile per restituire fiducia e uguaglianza.
6) Standard nazionali uguali ovunque
Il business prospera anche sulle disuguaglianze territoriali.
Standard nazionali vincolanti di accesso e tempi minimi riducono i vuoti in cui il mercato si infiltra. Un diritto deve valere allo stesso modo in ogni parte del Paese.
7) Stop alla sanità “a pacchetti” assicurativi
Le assicurazioni integrative non devono diventare il secondo pilastro della cura.
Se lo diventano, il sistema a due velocità si consolida e diventa irreversibile. Il ruolo delle polizze deve restare marginale, non strutturale.
Una sanità pubblica forte è l’unico antidoto al mercato della malattia
Il business sulla pelle degli ammalati non nasce dal nulla. Nasce da un vuoto pubblico costruito nel tempo.
Non si ferma con appelli morali al privato “buono”. Si ferma con una ricostruzione politica e materiale del SSN: risorse, personale, territorio, standard uguali, controllo vero.
Perché la cura non può dipendere da quanto rendi o da dove vivi.
Quando la salute viene trattata come una merce, il Paese si spezza. Quando torna a essere diritto pieno e vicino, il Paese si ricompone.
Conclusione: o diritto universale o mercato della sofferenza
“Il business sulla pelle degli ammalati” è il nome di una realtà già presente: profitti privati in espansione, spesa familiare crescente, sanità pubblica lasciata sottofinanziata, disuguaglianze territoriali e sociali che aumentano.
Il bivio è chiaro.
- Se si accetta che il privato sostituisca stabilmente il pubblico, la salute diventerà sempre più una questione di reddito.
- Se si ricostruisce una sanità pubblica forte, capillare e realmente universale, allora il mercato torna a essere marginale e il diritto torna a essere reale.
Non esiste una terza via stabile. Perché tra diritto universale e profitto sulla malattia, alla fine uno dei due prevale.
E una società che sceglie il profitto sulla sofferenza non sta solo tradendo i malati: sta tradendo se stessa.